Perchè leggere romanzi di autori postcolonialisti

La copertina dell'ultimo libro di Adiga, Selection Day

Qualche anno fa, in una libreria di Londra, una giovane commessa mi consigliava la lettura di un romanzo in commercio da poco, ma che era già un bestseller in tutta l’ Inghilterra. Era The White Tiger di Aravind Adiga . La commessa, nonostante la giovane età, era estremamente preparata su tutta la narrativa contemporanea. Mi disse poi che era una studentessa di letteratura all’Università di Londra e che per mantenersi, lavorava in libreria. Allora non sapevo minimamente chi fosse Aravind Adiga e The White Tiger. Mi lasciai però trasportare dall’entusiasmo della ragazza. In pochi minuti, aveva ripetuto la parola amazing non so quante volte, a proposito dello scrittore e a proposito del romanzo. Mi era inoltre piaciuto molto il titolo, The White Tiger, anche se qualcosa mi aveva già fatto presagire che il testo non aveva niente a che fare né con la savana, né con le foreste. Cominciai così a leggere il romanzo dell’autore indiano fin allora a me sconosciuto. Ricordo che la lettura del testo divenne per me una cosa frenetica, mi aveva incuriosita, e, in pochi giorni, ero giunta quasi alla fine. L’alt era arrivato però al momento della descrizione dell’omicidio.
L’esposizione dell’atto efferato mi aveva infastidita. Non sono mai stata appassionata né di thriller, né di romanzi noir. Ho sempre evitato la visione di film violenti e la narrazione di quell’omicidio mi aveva turbata. Non ricordo di aver mai letto un romanzo in passato che avesse prodotto in me un tale effetto. Forse lo stesso fastidio mi era stato provocato dal romanzo Mister Pip di Lloyd Jones . La descrizione degli omicidi, anche in questo romanzo, veniva fatta in maniera cruenta. Mi ci vollero diverse settimane prima di riacquistare la voglia di ultimare The White Tiger. Pensai che la violenza nella rappresentazione della morte non fosse una cosa casuale per movimentare la trama, ma voluta dall’autore per qualche motivo serio, per suscitare turbamento e alimentare paura. Voleva infastidire il lettore, entrare nei meandri della sua psicologia e leggere nella sua mente. Capii perfettamente però perché quella commessa ne era stata totalmente conquistata. Il libro non lasciava indifferente, nel bene o nel male, ti entrava in testa, era diverso da tutti e dava una sferzata al livello soporifero di molta letteratura internazionale moderna. Riusciva a bucare l’indifferenza.

Quell’autore, Aravind Adiga era geniale, oltre a uno bravo scrittore, lo ritenni un ottimo analista della psiche umana. Conosceva quali leve toccare per innescare determinate reazioni e, allo stesso tempo, cercava di evitare di voler compiacere il lettore per forza, non lo assecondava. Pochi scrittori, anche tra i più sofisticati e colti, sono capaci di fare ciò. Poi del resto, non sempre l’omicidio aveva un effetto rivoltante e fine a sé stesso. Pensiamo al Caravaggio e ai suoi dipinti. Lui stesso era un’omicida, famoso l’omicidio del gentiluomo Ranuccio da Terni in un duello. Dipingeva ritratti di assassini e li inseriva in contesti celestiali e mistici, sconvolgendo l’opinione pubblica dell’epoca. Per il Caravaggio anche l’omicidio aveva un tratto edonistico.
Aravind Adiga usava l’omicidio ma a fin di bene, in maniera didattica, per scuotere le menti annoiate dalla routine e abbattere il muro dell’indifferenza. Era poi interessato ad analizzare la corruzione e, in particolare, quella della mente umana, i giochi di potere, il male che ne deriva. Non esaltava l’atto dell’omicidio in quanto tale, lo usava come mezzo. E non temeva le eventuali critiche o ripercussioni di coloro ritenessero il suo metodo alquanto spregiudicato, al limite con il lecito.
In seguito, ho letto tutti i libri di Aravind Adiga, ho anche analizzato la sua biografia, molto più approfonditamente delle secche sei righe pubblicate all’inizio del romanzo che gli è valso il Booker Prize. Di certo, non è un autore che passa inosservato e il suo modo di scrivere, che pare quasi casuale e fortuito, è frutto di una profonda preparazione.
Ho sempre letto molto sull’India, la superpotenza mondiale costantemente presente in tutti i media e della smodata attenzione che le riversano. The White Tiger è ambientata nella “new India”, nell’India del 1991, quando l’economia socialista della nazione, con ogni aspetto della vita del cittadino controllata dal governo, si apre improvvisamente al mondo intero. The White Tiger si colloca in questo periodo storico, in una nazione plasmata dalla globalizzazione, da un rapido arricchimento generale, da una sfacciata crescita economica e da profonde ineguaglianze. Sono passata poi alla lettura del secondo romanzo di Adiga, Between the Assassinations, che, anche se questo romanzo è pubblicato successivamente, tratta degli anni tra il 1984 e il 1991, ovvero degli ultimi anni della “old India”. Con la morte cruenta di Indira Gandhi nel 1984, si creò la speranza che l’India potesse migliorare ed avviare delle riforme, abbandonando quel modello di India corrotta dall’economia stagnante.
Lo scopo di questo studio è stato quello di collocare il fenomeno moderno dell’India in un contesto storico preciso. Per poter far ciò, mi sono avvalsa delle riflessioni di un autore indiano molto autorevole, V.S. Naipaul. Il suo sguardo è quello di un indiano nato ai Caraibi e vissuto per molti anni all’estero, che ha gli strumenti quindi per osservare la cultura e la società indiana con distacco oggettivo pur facendone parte. Per comprendere il mondo contemporaneo, bisogna sempre attingere dal passato di una nazione, dalla sua mentalità e ritualità e V.S. Naipaul è stato molto utile in questo arduo compito. Ho utilizzato pertanto il suo testo, Una Civiltà Ferita: L’India . Sarebbe stato davvero difficile poter parlare dell’India moderna, della ‘new India’, senza aver approfondito prima la sua storia, le sue maggiori caratteristiche, le sue ferite e la sua più grande figura carismatica, Gandhi.

Per l’occidentale provvisto di una conoscenza superficiale, Gandhi è considerato soprattutto una figura mistica, quasi un santone che promuoveva la dottrina della non-violenza. Egli era invece un personaggio pubblico preparato, attento e con un fiuto da vero animale politico. Aveva una laurea in giurisprudenza all’università di Londra, aveva viaggiato incessantemente per varie nazioni con diverse realtà politiche come in Sud Africa. La cultura, l’esperienza, la capacità politica di Gandhi hanno fatto sì che l’India diventasse quella che è, una nazione all’avanguardia, divenuta anche una superpotenza mondiale.
Oggi l’India è tormentata da molte contraddizioni. E’ una nazione fortemente sviluppata nel settore informatico, quasi una Silicon Valley, ma al tempo stesso, è estremamente arretrata relativamente al rispetto dei diritti umani, soprattutto nei confronti delle donne, ma più in generale per via della suddivisione in caste. L’occidentale ha ancora un’immagine idilliaca dell’India spirituale, un’atmosfera falsata da varie opere cinematografiche e da libri sulle religioni, ma che altro non sono se non un insieme di luoghi comuni. Ho cercato di indagare sul sistema castale in rapporto a quello giuridico contemporaneo, allo scopo di fare emergere una diversa concezione dei diritti umani dell’individuo nel mondo induista: infatti i diritti umani devono essere letti in rapporto allo svadharma, ovvero il ‘dovere’ che ciascun individuo ha per il fatto di essere nato in una certa casta. Con l’approfondimento dei diritti umani in India, ho cercato di comprendere il loro modo di pensare e di agire. L’immagine di un uomo sprovvisto di diritti al momento della nascita non appartiene al mondo occidentale. L’uomo che non esiste da solo, ma che fa parte di una collettività è una idea presente nella religione induista e nel buddismo. Sono punti che ho considerato con attenzione, avvalendomi anche di testi di diritto induista, per capire come la politica abbia espresso una sua precisa posizione e promulgato leggi ad hoc per contrastare le discriminazioni prodotte dalla mancanza di tutela dei diritti umani. Ho cercato di comprendere inoltre come sia possibile che molte persone, pur discriminate da queste regole, riescano a sposarle pienamente, senza un minimo tentativo di ribellione, anzi, quasi le invocano, visto che è uno dei temi trattati da Adiga nei suoi romanzi, in particolare in The White Tiger. E’ come vedere un prigioniero che implora una sonora punizione. Ho cercato di capire come l’autore descriva le motivazioni che spingono un indiano a un atto di totale ubbidienza e passività. Gandhi professava la non-violenza, ma non era mai un atto passivo e fine a se stesso. Era invece un atto dinamico, molto attivo. La sua Marcia del Sale fu un’azione innovativa e geniale al tempo stesso. Aveva ottenuto di più con essa che con qualsiasi altra forma di ribellione. Una non-violenza intesa come dinamismo attivo, usando anche il digiuno come forma di protesta e purificazione spirituale. La Marcia del Sale del 1930 fu così simbolica, con i manifestanti completamente non reattivi alle percosse delle forze dell’ordine, che sollevò l’attenzione non solo dei media indiani, ma soprattutto di quelli britannici e quindi di tutti quelli internazionali.
Questi approfondimenti sono fondamentali per la comprensione dei testi di Aravind Adiga e pertanto ho sviscerato, sin dall’inizio, tali questioni per poi passare alla lettura di The White Tiger, Between the Assassinations e del terzo Last Man in Tower.
La povertà è così diffusa, quasi un fenomeno culturale e, nonostante lo sviluppo economico di questi ultimi anni, l’India ha dovuto fronteggiare sempre questo problema. Ciò che è incomprensibile è come mai il governo non si sia impegnato abbastanza nella risoluzione di questa piaga che strangola la nazione e i suoi abitanti. Cosa c’è dietro questo prepotente boom economico e il perché dell’atteggiamento a volte arrogante del governo indiano che, per molti versi, mi ricorda il carattere spregiudicato del protagonista di The White Tiger. Adiga usa i romanzi  per criticare l’economia del paese, senza  esibire un atteggiamento passivo di accettazione e sottomissione. La realtà dell’India ha in sé diversi contrasti: si muore di fame, gli ospedali sono spesso paragonabili a quelli del terzo mondo, ma il paese ha un potenziale sviluppo economico da nazione emergente.

Per poter analizzare le ripercussioni del boom economico nei romanzi, ho letto quanto scrivono gli esperti del settore, tra i quali la grande scienziata indiana, Vandana Shiva,  poiché penso che l’opinione di una donna indiana sia fondamentale. Interessante il suo libro, India Spezzata , il cui titolo mi evoca quello di V.S. Naipaul sull’India e sulla civiltà ferita. Per Naipaul l’India è ferita, per la Shiva è spezzata. Entrambi ne denunciano il disagio e il malessere.

Bisogna poi osservare l’organizzazione economica dell’India da un punto di vista statale e amministrativo. Per la sua organizzazione statale, l’India rappresenta il nuovo ed è esempio di dinamismo, gli occhi dell’Occidente sono puntati su di essa per trarne ispirazione. Come può uno stato con una tale variegatura di realtà economiche, riuscire ad inglobarle e ad organizzarle tutte, una sfida difficile da portare avanti. Si parla molto dell’organizzazione statale ed economica dell’India in chiave federalista. Il federalismo fiscale è il vanto della nazione.

Un testo pubblicato all’inizio del 2013 sull’organizzazione federale dell’India di Amirante, Decaro e Pföstl , illustra come tale federalismo non sia la fotocopia di quello occidentale di stati come il Canada, ma è una rielaborazione di una nozione esterna all’India e  poi, fondendola con gli elementi locali, si è creata una forma originale di organizzazione statale. Il federalismo indiano, utilizzato dopo l’Indipendenza del 1947, adottando schemi occidentali, ha sviluppato un modello proprio che è utile al paese. Il federalismo è presente nella sua storia, in quanto l’India è un’assommarsi di razze, popoli e religioni con molteplici differenze. Non è mai stata unita in passato come lo è attualmente ed è per questi motivi che dopo il 1947 ha adottato l’opzione federale, un sistema federale con una forte struttura centrale ma sensibile alle esigenze delle autonomie. L’India è formata da ventotto stati, ventitré lingue diverse riconosciute dalla costituzione, idiomi locali e poi la lingua inglese. Il federalismo indiano pertanto è un vero e proprio federalismo, anche dal punto di vista politico, in quanto la politica della nazione si regge sulle componenti locali.
Queste tematiche sono  essenziali per la comprensione dei romanzi di Adiga che pare dimostrare un grande interesse nel settore. L’economia è ciò che oggigiorno caratterizza di più uno stato, l’impalcatura che lo sorregge, lo stato deve avere una sovranità economica. Uno stato viene caratterizzato dalla sua economia, in tutte le sue sfere, anche in quelle culturali.

Nei momenti di crisi economica, purtroppo i governi, nella maggior parte dei casi, scelgono di tagliare prima di tutto i fondi per la cultura, producendo danni gravissimi. Scrittori indiani come Aravind Adiga e Salman Rushdie hanno scelto invece una strada alternativa molto proficua, contribuendo ad implementare la letteratura indiana. In India oggigiorno nelle librerie, i testi classici di autori occidentali sono stati soppiantati da quelli indiani. Lo stratagemma usato da Rushdie è stato quello di ricorrere a solide case editrici occidentali. Vedo inoltre dalla copertina di The White Tiger che Aravind Adiga si è avvalso della casa editrice londinese Atlantic Books, un’azienda indipendente che pubblica testi sofisticati e originali. Adiga, Rushdie e anche Ghosh sono autori globali che scrivono in inglese per farsi capire da un pubblico vasto. Gli scrittori indiani hanno dimostrato grande capacità e caparbietà, pur di vedere i loro testi pubblicati si sono rivolti altrove, verso case editrici coraggiose che non hanno esitato un attimo ad investire danaro nelle loro opere. Il loro coraggio e la loro furbizia sono stati ben ripagati se, come diceva la commessa della libreria di Londra, The White Tiger è stato un best-seller in tutta l’Inghilterra. Senza parlare poi dei libri di Salman Rushdie, venduti ed apprezzati in tutto il mondo, come I figli della mezzanotte, uno dei suoi maggiori best seller, nella classifica dei cento libri del secolo di le Monde.

Nicoletta Maggi, introduzione  a pubblicazione per università

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Nicoletta Maggi è interprete simultanea e giornalista. Risiede nelle Marche, ma lavora da molti anni a Roma come addetto stampa. Ha lavorato in Inghilterra e in Germania.