“Ozymandias è il mio nome, il Re dei Re: guardate alle mie opere, o potenti, e disperate!” La poesia di Shelley mai così attuale

Statua del faraone Ramses, Ozymandias

Che risate  irriverenti quando si recitava l’Ozymandias, il sonetto del grande poeta romantico inglese Percy Bysshe Shelley. Non ci era stato richiesto dall’insegnante di imparare i suoi versi. Ma, a forza di declamare in maniera solenne e sarcastica, la poesia, alla fine, la sapevamo davvero a memoria. Da studenti diciannovenni, nell’ora di letteratura inglese al primo anno della Scuola Superiore per Interpreti e Traduttori di Firenze, ci apprestavamo allo studio approfondito del poemetto. La professoressa britannica doc ce l’aveva messa tutta. Mai avrebbe immaginato che dietro alle sue spalle, ci facevamo scherno di quella statua di pietra rovinata, quella di Ozymandias, ovvero del faraone egiziano Ramses il Grande, le cui gambe senza tronco erano sepolte nel deserto.

 OZYMANDIAS
I met a traveller from an antique land
Who said: Two vast trunkless legs of stone
Stand in the desert… Near them on the sand,
Half sunk, a shattered visage lies, whose frown
And wrinkled lip, and sneer of cold command
Tell that its sculptor well those passions read
Which yet survive, stamped on these lifeless things,
The hand that mocked them, and the heart that fed.

And on the pedestal these words appear:
“I am Ozimandias, King of Kings.
Look on my works ye Mighty, and despair.”

Nothing besides remains. Round the decay
Of that colossal wreck, boundless and bare,
The lone and level sands stretch far away.

OZYMANDIAS

Un viaggiatore ho incontrato, giunto da un paese antico,
mi disse: “Due immense gambe di pietra prive di tronco
si ergono nel deserto…Vicino ad esse sulla sabbia,
mezzo sepolto, giace un volto in frantumi, il cui cipiglio
e il corrugato labbro, e il ghigno di freddo comando,
rivelano che lo scultore assai bene colse quelle passioni
che ancora sopravvivono -impresse in quegli oggetti senza vita-
a quella mano che le raffigurò e all’anima che le nutrì.

E sopra il piedistallo stanno incise queste parole:
“Ozymandias è il mio nome, il Re dei Re:
guardate alle mie opere, o potenti, e disperate!”

Null’altro rimane. Attorno allo sfacelo
di quel rudere immenso, sconfinato e nudo,
si stende delle sabbie, solitario, il piano.

Parla di un viandante che nel deserto, mentre cammina, si imbatte nelle rovine di una statua sgretolata. E lo racconta al poeta. La descrizione è cinica e precisa. Tutto ciò che rimane del grande faraone sono delle gambe prive di tronco, la faccia, mezza affossata nella sabbia, che mostra un ghigno superbo di un comandante dal labbro contratto. Lo scultore che un tempo aveva progettato la statua, aveva saputo interpretare bene le passioni del tiranno. Un grande artista. Sempre nel deserto si trova anche il piedistallo con su scritto:”Ozymandias è il mio nome, il Re dei Re: guardate alle mie opere, o potenti, e disperate”. A parte questo monito, niente rimane di questo uomo tanto potente in passato.

E’ il destino che spetta a tutti i tiranni della terra. Questo è il messaggio. Quei dittatori che usano il loro potere non per cause nobili, ma per il potere fine a se stesso, per loro stessi e non per i popoli che hanno guidato. Lo stesso vale per gli imperi. Per tutti i dittatori del passato, del presente e del futuro. Se soltanto i vari Hitler, Mussolini e Stalin avessero seguito l’insegnamento di Shelley. Lo stesso per i tiranni minori, quegli arroganti che incontriamo quotidianamente nei nostri percorsi professionali. O per quelli che scambiano un ruolo politico per sopraffazione, per l’affermazione di sé. Niente rimarrà di loro. Saranno ingoiati da uno strato denso di sabbia.

Museo Keats-Shelley a Roma

Nel Museo di Keats, Shelley a Roma, il Keats-Shelley Memorial, situato al numero 26, proprio sopra la celebre scalinata di Trinità dei Monti, si trovano molte delle opere dei due poeti inglesi romantici, ma anche di Lord Byron. L’autore ribelle di molte poesie, anche lui romantico, che professava ideali indipendentisti.

Il museo fu caldamente voluto dal presidente degli Stati Uniti Franklin Roosvelt, dal re britannico Edoardo VII ed è patrocinato dal Principe del Galles, Carlo d’Inghilterra. I tre poeti erano innamorati dell’Italia e di Roma. Keats abita e muore giovanissimo di tubercolosi in questo edificio. Un tempo, la ricca proprietaria ne affittava le stanze. Si può visitare la stanzetta col caminetto dove trascorre gli ultimi giorni.

Museo Keats-Shelly a Piazza di Spagna

All’ingresso, in biglietteria, si possono acquistare libri, gadget e cartoline sui tre romantici. Nessuna traccia dell’Ozymandias di Shelley però. Dicono che il materiale è andato esaurito e che è in ristampa. Qualcuno ha scritto che i britannici dell’epoca non gradissero questa poesia di Shelly alla sua uscita, perché la videro come una critica feroce dell’autore all’impero britannico. Alla sua politica coloniale, soprattutto in India. Un monito all’ arroganza del Regno Unito. Ozymandias fu composto pochi anni dopo della battaglia di Waterloo.

Shelley era in realtà contrario ad ogni regime tirannico e dispotico qualsiasi esso sia stato. Era pervaso da puro misticismo, dell’unione dell’uomo con la natura. Tutti i despoti faranno la fine della statua, sgretolati in mille pezzi. Soffocati dall’abuso di potere. Resta l’artista invece. Come nel poema, si celebra l’amore dello scultore per l’opera che ha creato in maniera eccellente. La memoria consegnerà alla storia l’artista e non il tiranno.

Interno Museo di Keats e Shelly

Al di là delle ironie degli studenti diciannovenni alle prese con l’interpretazione beffarda del grande sonetto di Shelley, Sabra col suo accento americano madre lingua era la più brava di tutti, resta il messaggio grande dell’opera. I Re dei Re avranno tutti lo stesso destino inglorioso. Niente rimarrà di loro. I vari “Ozymandi” di tutte le epoche, con la loro arroganza, andranno incontro ad un comune declino inevitabile, seppelliti dalla sabbia del loro potere.

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Nicoletta Maggi è interprete simultanea e giornalista. Risiede nelle Marche, ma lavora da molti anni a Roma come addetto stampa. Ha lavorato in Inghilterra e in Germania.